La mostra fotografica
Preghiere senza parole
di Carlo Verdone
Quando ero bambino, mi piaceva fare un gioco curioso sul grande terrazzo della mia casa paterna, sempre che il cielo me lo avesse permesso: alzavo il naso all’insù e fissavo le nuvole, cercando di decifrarle nella loro lenta mutazione. Una volta si materializzava la testa di un lupo, un’altra le sembianze di un mostro dalla grande bocca, un’altra ancora un volto comico che si deformava per unirsi a un altro cumulo e dar vita a un altro, fantasioso, disegno. Vedevo quindi il cielo come una immensa tela, dove opere astratte si componevano e decomponevano lentamente in significati che solo io potevo attribuire. Da sempre, il cielo ha richiamato la mia attenzione. Attraendomi e inquietandomi allo stesso tempo: nella poesia dei suoi colori o nella sua cupezza minacciosa.
L’ho sempre considerato come l’umore di Dio… o così mi piaceva interpretarlo.
La fortuna di abitare in alto e di godere degli ampi terrazzi nel centro della mia Roma, ha sicuramente contribuito a predispormi verso lo stupore di quella moltitudine di colori che scandivano le varie stagioni. Ogni mese ha una sua tonalità, la sua nitidezza, la sua afosa opacità, i suoi contrasti, la sua grazia cromatica, la sua malinconia. Così un giorno, quando mi fu prestata una preziosa Rolleiflex, alla quale seguì come regalo una Leica, iniziai ad esercitarmi nella fotografia.
Avevo un certo gusto (me lo dicevano in tanti) ma, nella realtà, mi ritenevo uno che faceva solo cartoline. Non riuscivo proprio a trovare un mio stile.
Avevo imparato anche a sviluppare un negativo e a stampare. Ma nel vedere in fila tutti i miei scatti di scorci, stradine, vicoli, ponti, ruderi, mi sembrava che mancasse solo un francobollo e il tipico “Baci da Roma”. La svolta avvenne quando, sfogliando un libro di mio padre, trovai una pagina dove era stampato un dipinto, del futurista-divisionista Luigi Russolo, dal titolo Lampi. Pittore e musicista, Russolo nel 1910 aveva raffigurato un paesaggio notturno, inquietante, sul quale incombevano minacciose nuvole che venivano illuminate da potenti lampi. Era un’immagine di
rara vibrazione e suggestione. Quelle energie nascoste, attraverso le scintille abbaglianti, mi ipnotizzarono a tal punto che cominciai ad interessarmi al cielo visto da altri pittori. Tiepolo, Monet, Turner e Constable, a mio modesto avviso, ebbero un talento inarrivabile nel rappresentare la volta celeste nelle sue trasformazioni: bagliore divino, silenziosa malinconia, inquietudine
imponente. Ben conscio che mai nessun fotografo avrebbe potuto rendere le loro creazioni più sconvolgenti ed ipnotiche, cominciai a puntare la macchina fotografica verso l’alto. E ben presto il cielo divenne ispirazione ed ossessione.
Fin dagli anni Ottanta, ascoltavo delle composizioni strumentali elettroniche di Brian Eno, Philip Glass, David Sylvian e Robert Fripp. Tutte caratterizzate da sonorità spesso monotone, orizzontali,
dalle minime e, talvolta impercettibili, variazioni. Non so quante volte avrò ascoltato Lizard point di
Brian Eno e Steel cathedrals di Sylvian, pezzi simbolo di una musica che devi accogliere in solitudine, tanto è il mistero ipnotico che emana. Ecco, quei suoni mi riportavano alla contemplazione, allo stupore silenzioso del cielo.
Quel cielo che cominciava ad essere oggetto di una nuova passione, assolutamente privata. Una passione liberatoria per chi, come me, ha dedicato e dedica ancora la sua vita artistica alla commedia, alla risata. Finalmente, attraverso la fotografia, potevo riappropriarmi della mia vera indole: contemplativa, malinconica, spesso solitaria. Quando scatto non voglio nessuno accanto a me. Quel momento “mistico” è solo mio. Io e il cielo, un albero, una lontana montagna, una vallata. All’alba o al tramonto, prima o dopo una tempesta. Io e la natura nel corso delle stagioni, dove
tutto è immobile. Senza alcuna traccia di umanità.
Queste che vi presento sono “preghiere senza parole”.
È la definizione più sincera che ho trovato.